LE PAROLE PESANO

16 February 2021 1 By EH(?)

Caro Flaiano, ti scrivo
con uno sguardo ad un metodo diventato sistema, senza la presunzione di ricevere la tua attenzione seppure ciò fosse realisticamente possibile.

Ma: sai com’è? Credo anch’io, come te, nella parola, anche se non soltanto in essa e – soprattutto – non credo nelle parole al vento, sparpagliate per convincere di propositi non sempre ispirati da sincerità assoluta e tesi a nobili finalità. E mi sforzo di capire il senso delle parole, prima di affidarmi ad esse per trasmettere i miei pensieri.

«La parola ferisce, la parola convince, la parola placa. Questo [per te] è il senso dello scrivere».

In aggiunta, proporrei: le parole pesano. E insisterò sull’osservazione.

Prendo spunto dal verbo da te usato: “placa”, da questo potere della parola e dello scrivere, da me sperimentato anche in una circostanza tutt’altro che piacevole della vita di mio figlio in primis, e conseguentemente di tutti noi, membri della sua famiglia, per rivolgermi a te. A te che, ignaro della questione – in tutta la sua confondibile incomprensibilità – fosti tirato in ballo in una lontana mattina dei primi di aprile 2017, a due giorni dal compleanno proprio di quel figlio, fresco di condanna alla gogna mediatica, senza essere passato attraverso un regolamentare processo, per “addebiti” letti, soltanto – è bene tenerlo a mente – al chiuso di una stanza al pari della consegna di una lista della spesa, con immancabili aromi piccanti …lista più che altro degna di una sceneggiatura kafkiana.

Figlio che nel bel “mezzo del cammin” di sua vita era stato di punto in bianco deviato “per una selva oscura” che più oscura di così non si sarebbe mai potuta concepire. Eh, sì: un inferno, che per una commedia pseudepigrafa ispirerebbe collocazioni di nuovo conio e sorprendenti rivelazioni.

A scanso di equivoci: non intendo affatto tirarti per la penna e portarti dalla mia parte. Né servirmi di tue citazioni come foglie di fico per coprire concetti nudi e crudi, in un ambiguo gioco a nascondino. Semplicemente: mi sto sforzando all’inverosimile per cercare di capire, per fare chiarezza anche su quelle parole che hanno ferito e su quelle usate per colpire a morte e per convincere di una narrazione, più precisamente dell’interpretazione soggettiva di una vicenda raccontata e rilanciata senza uno straccio di prova provata. E: nello specifico, perché fosti arruolato per dare un tocco di stile all’esternazione di opinioni personali, in costanza di scissione di sé dall’io pensante, prendendo a prestito la tua confessione che a volte ti sono venuti in mente pensieri che non condividevi.

Un cucchiaino di zucchero, insomma, per addolcire l’ironia di un caffè amarissimo per chi era caduto sotto una mannaia senza alcun segno premonitore di tale rovina e per chi – come me, sua madre – era stata collegata fantasiosamente in un racconto di tutt’altro genere per un ipotizzato raggiramento di norme giuridiche di cui avrei gioito grazie ad un ipotetico – vagheggiato dall’autore dell’articolo – codicillo di leggi nel nostro caso per nulla contemplate. E non per un vuoto legislativo e in mancanza di un regolamento per personale in servizio. Nient’ affatto. Semplicemente per un’irrituale, arbitraria, decisione. Senza giri di parole: una violazione bell’e buona dei più elementari diritti umani.

Eppure: caro Flaiano, nessuno dei tuoi compagni di mestiere se ti avesse incontrato in quei giorni ti avrebbe confessato, come Mino Maccari: «Ho poche idee, ma confuse». Inebriati dal sensazionalismo di un fatto senza precedenti, fino a quel momento, tutti si riempirono di quell’idea sola. Va be’, tu ti sei espresso in un altro modo a proposito di chi è pieno di idee… Ma io, sai com’è, non oso far mia quella citazione. Pesante, ma desolatamente veritiera.

E tutti fecero a gara per partecipare alla danza macabra, per gloriarsi di aver lasciato a futura memoria la propria firma sulla “notizia col botto” di un pontificato sempre all’insegna dell’estemporaneo, enfatizzato da effetti speciali mediatici. Mica come te che, a chi ti chiese perché scrivessi così poco, rispondesti: «Caro signore, io non ho una vocazione narrativa. Scrivo, che è una cosa ben diversa». Diversità che si coglie anche nella nota distintiva che hai specificato: «Un buon scrittore non precisa mai».

Invece: nel “caso” in oggetto fioccarono le precisazioni, ovviamente in replica della versione ufficiosa fatta filtrare, in base alla quale bisognava ristabilire un clima di serenità turbata dal “condannato”. Ridare la serenità a tanti poveri dipendenti che ritornavano agli affetti domestici esasperati (stando ad una lettera anonima) non per i problemi che fondatamente – come si verifica – possono crearsi in un qualunque ambiente lavorativo, ma dal dover rapportarsi con un funzionario – nemmeno in un ruolo direttivo e con mansioni decisionali, ma nella funzione di segretario – dal carattere “eccessivamente autoritario”, così tanto da spingere qualche giornalista a calcare la mano sull’accusa che gli sarebbe stata addebitata. Accusa mai mossa formalmente e men che meno mai denunciata in precedenza ai diretti Superiori e/o agli organi competenti dai presunti maltrattati.

Col finale ormai noto. Proprio sul modello del “Ritrattino” che hai tracciato: «Uno di quei tali [vai a capire se poi, veramente, fossero più di uno!] che, per trovare la sua serenità, ha bisogno di farla perdere agli altri», scatenando a catena la voglia matta del Caino sempre in agguato «a scrivere le sue memorie», avendo la propria verità da proporre, mentre Abele veniva «sottoposto all’ autopsia del cervello».

E calarono “le ombre grigie” che tuttora bloccano il passaggio della luce, di quella verità che «fulmina chi osa guardarla in faccia» e, perciò, si preferisce restare accoccolati all’ ombra…

Di tanto in tanto, irrompe l’eco di fatti di cronaca, per la verità piuttosto intrigati e intriganti, e allora…Ecco che, fra le righe di qualche approfondimento, con toni sfumati rispetto alle ultimissime in primo piano, compare una connessione a vicende del passato con quel tratto conforme ravvisabile nel metodo diventato sistema.

Nell’editoriale dedicato all’ allontanamento dal monastero di Bose del priore Enzo Bianchi, il direttore del sito paravaticano “Il Sismografo” ha scritto fra l’altro: «Da qualche anno in Vaticano capita ogni tanto, e i casi non sono pochi, che sulla base di denunce sconosciute, non dichiarate con trasparenza, a volte anonime, manipolate mediaticamente e fatte circolare nel gigantesco circuito delle “chiacchiere, indiscrezioni e fonti ben informate”, si viene condannato e giustiziato civilmente o moralmente. Nessun processo, nessuna difesa, nessuna parresia. Il “sorteggiato” deve essere dato in pasto e basta, anche se le presunte “prove”, vere o false (tanto nessuno lo sa e lo saprà mai) sono state passate in modo illegale e immorale a chi sa sfruttarle».

«Come persone semplici, e cioè come la stragrande maggioranza della Chiesa Cattolica – ha puntualizzato il dott. Badilla – sappiamo una sola cosa, più volte proclamata e insegnata nel magistero di Papa Francesco: la misericordia rispetta e difende la dignità di ogni figlio di Dio e quindi nessuno, e in primo luogo la Chiesa stessa, si dovrebbe mai permettere di trattare un essere umano, un proprio figlio, in questo modo, con questi metodi e con questi meccanismi. Come modo di essere e fare Chiesa è contrario al Vangelo ed è ormai insopportabile quanto tanti altri gravi peccati. È ora di smetterla di usare Cristo e il Vangelo per mascherare, addolcire o rendere inoffensivi comportamenti di per sé anticristiani».

Tassativo fin dal titolo dell’articolo: «la gerarchia cattolica non può continuare a “giustiziare” delle persone senza verità e trasparenza».

In conclusione: se a pronunciarsi in tal senso è un giornalista tutt’altro che “ostile” e nemmeno pregiudizialmente critico, qualcosa vorrà pur dire…A capirlo!

Maria Michela Petti
16 febbraio 2021