Le ex clarisse di Ravello e le altre. La carica di femminilità pro-convento

8 Marzo 2023 0 Di EH(?)

Lo scorso febbraio – per inciso: mese per Ungaretti “sensitivo e, per pudore, torbido” che ogni anno lo sorprendeva con l’irrompere della mimosa – si è aperto e chiuso con due vicende singolari finite sotto i riflettori della stampa, e che incarnano appieno il significato attribuito a questo fiore diventato simbolo della Giornata Internazionale della donna, che si celebra l’8 marzo.
Per puro caso, protagoniste ne sono state delle donne. Donne dal profilo specifico, senza smania di protagonismo per partito preso. Va da sé.

Claustrali: protagoniste loro malgrado. Animate dal desiderio vivo di difendere la dignità della loro scelta di vita, in coscienza e consapevolezza.
Orgogliosamente con il velo, non avvertito come peso e pretesto di coercizione della sfera spirituale e della propria identità umana, da parte di chiunque sia.

IL FILO ROSSO CHE LEGA LE DUE STORIE
Monache destinatarie – a seguito di “visite apostoliche”, divenute una costante sotto il pontificato in corso; per quel che se n’è saputo – di provvedimenti che hanno spaziato dall’annullamento dei voti professati per due ex clarisse del convento “Santa Chiara” di Ravello (www.eugeniohasler.info/al-tempo-delle-cacciate/), al decreto di «allontanamento per l’abbadessa (è l'”esclaustrazione”) per un triennio senza sostentamento, e restando formalmente monaca, e per la priora un trasferimento di un anno» nella vicenda riguardante le benedettine del monastero “Maria Tempio dello Spirito Santo” di Pienza.
Ingiunzione fermamente contestata, per vizio di forma riscontrato, dalle tredici monache che, dopo un percorso ad ostacoli che aveva reso impraticabile il loro rientro nella sede originaria nel Piceno – a causa delle conseguenze del terremoto – successivamente ad un travagliato passaggio in Olanda per rimpolpare una nascente comunità in seno al Cammino Neocatecumenale, erano state ospitate nel 2017, provvisoriamente, nell’ex seminario estivo di Pienza di proprietà della diocesi di riferimento.
Dove, di lì a poco, si sono trovate a dover fronteggiare problemi di sopravvivenza economica che, intrecciatisi con l’avvicendamento del Vescovo responsabile, hanno portato ad una situazione così complicata da renderne piuttosto difficile la comprensione dalle storie giornalistiche di queste ultime settimane, e sfociata nel braccio di ferro delle religiose con i Superiori della Congregazione (ora Dicastero) per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, con la Diocesi e con il loro stesso Ordine.

E, come nella vicenda del Monastero di Ravello, anche in quella in atto a Pienza si è registrato il coinvolgimento dei carabinieri, che – informa l’edizione fiorentina online de “la Repubblica” – continuano ad indagare su quanto accaduto, in vista di una potenziale inchiesta da parte della Procura di Siena, «che potrebbe anche essere imminente».

Alla caduta di stile nell’approccio a questioni di siffatta natura, che è impossibile non rilevare dai racconti relativi che hanno fatto notizia, l’opinione pubblica ha risposto in entrambi i casi con una significativa manifestazione di solidarietà nei confronti delle religiose, specie attraverso i social. E pure questo dovrebbe… ridurre a più miti consigli…

LA sottile DIFFERENZA
Alle due ex clarisse di Ravello, impegnatesi senza risparmiarsi in punto di diritto a difesa del Monastero “Santa Chiara”, per il timore di oscuri progetti contrari allo spirito della sua costituzione, suscitato dalle decisioni adottate, e culminate con l’estromissione dalla loro “casa” e con l’annullamento dei voti da esse professati, la firma del papa al Decreto ha stroncato ogni possibilità di difesa, a norma del Codice di diritto canonico.
Margine, invece, consentito alle benedettine di Pienza che hanno avviato un ricorso presso la stessa Autorità vaticana che ha emesso il provvedimento loro notificato, ritenendo «doveroso avvalersi delle tutele e delle garanzie» riconosciute, e nelle sedi competenti, a difesa dei diritti personali di ognuna e di tutte le componenti della comunità monastica, e per il rispetto dovuto all’immagine del Monastero. Alla quale, oltre tutto – a loro avviso – avrebbe arrecato un grave danno un comunicato ritenuto inopportuno, «per la mancanza della doverosa discrezione – oltre che della auspicabile Carità – necessaria in queste situazioni», diffuso dalla Diocesi di Montepulciano-Chiusi-Pienza».
È quanto lamentano in una replica, pubblicata su Fb il 22 febbraio scorso, rigettando le accuse «di disubbidienza e di resistenza alle disposizioni dei Superiori», con la precisazione che la comunità «si è semplicemente rifiutata di dar corso ad un provvedimento che reca grossolane anomalie e vistose criticità di natura giuridica, tali da pregiudicarne la validità e l’efficacia». Le religiose, inoltre, bocciano la modalità di comunicazione ritenuta «priva dei requisiti che la renderebbero esecutiva», anche a motivo della indeterminata esposizione degli addebiti loro addossati.

Con uno sforzo di buona volontà, tutt’altro che semplice, dovendo fare i conti con una massiccia dose di scetticismo alimentato dall’ irrinunciabile pratica, in certi ambienti, del “Quod scripsi, scripsi” – soppiantato, nell’esperienza familiare vissuta, dall’inflessibile attuazione del “Quod dixi, dixi”, come non posso fare a meno di ricordare – esprimo la mia sincera solidarietà alle Sorelle in Cristo, con l’augurio che l’istanza da loro avanzata venga presa nella debita considerazione e porti alla giusta conclusione sperata.

ELEMENTI CONVERGENTI CON IL “CASO HASLER”
Qualche giorno dopo il 22 febbraio scorso, su un cartello affisso dalle monache al cancello del Monastero di Pienza – e presto rimosso – si leggeva quanto riportato prontamente da articoli rimasti in Rete, da cui emergono analogie con il “caso Hasler”, segnatamente riguardo:

  • ad «una epurazione senza motivi ufficiali: vogliamo solo capire di cosa siamo accusate»,
  • alla puntualizzazione che «In passato, peraltro, né il monastero né i suoi vertici, hanno mai ricevuto alcun rimprovero dai superiori per fatti o circostanze ritenuti ‘impropri’ dalle autorità»
  • e, al rammarico per la diffusione, attraverso i mezzi di informazione, «di notizie assolutamente false e artefatte», di «presunte motivazioni dalle quali non ci siamo mai potute difendere e da cui tutt’ora non possiamo difenderci perché non sono nemmeno accennate negli atti ufficiali».

La differenza sostanziale fra le due vicende è in un particolare divergente rispetto all’ultimo punto evidenziato. Particolare sconosciuto alle monache (e ai più), che rende surreale il “caso Hasler”, accentuandone la gravità, ove mai fosse possibile: la mancanza di un “atto ufficiale”.

Tutto quello che è in mano ad Eugenio è un bigliettino del 27 marzo 2017 (ci avviciniamo alla data fatale del sesto anniversario) firmato dal papa, con il laconico invito a comparire alle ore 11 del giorno successivo davanti a lui, presso la Residenza “Santa Marta”, dove fu pronunciato il verdetto di condanna senza appello. Bigliettino che fu consegnato dal segretario di Bergoglio, e per suo ordine categorico, direttamente all’interessato, raggiunto nell’ufficio, dove prestava servizio, che il giorno dopo gli fu imposto di lasciare a decorrere dal terzo giorno successivo a quell’incontro: il 1° aprile 2017.

Un bigliettino non scritto, in tutta evidenza, per scaldare un cuore e permettere che se ne irradiasse il calore, come le innumerevoli, accorate, missive papali inviate a getto continuo a destinatari vari, e strappa plauso, perché immediatamente veicolate agli organi di stampa. Ai quali, tuttavia, per quel che concerne il “caso Hasler” – dopo una settimana dalla comunicazione in forma privata della decisione arbitraria – pervennero gli “spifferi” dalle viscere dei così detti Sacri Palazzi e la notizia, nelle prime ore della notte del 5 aprile di quell’anno, si riversò a valanga sul web, terremotando le nostre vite e permettendo che una persona fosse distrutta nella sua dignità umana e professionale.

Nelle cronache relative al “fatto”, un unicum, tratteggiato da alcune firme italiane a tinte sensazionali – che leggemmo arricchite con dettagli a noi del tutto ignoti, tuttora – non si fece alcun riferimento a ipotetiche “fonti”, di solito citate dai giornalisti, col beneficio per le medesime dell’anonimato, non senza però qualificarle come “autorevoli”, a garanzia di una presunta esatta conoscenza dei dati riferiti e a sigillo di credibilità accertata.
Soltanto su un sito estero la notizia, riportata doverosamente nella sua essenzialità, includeva il riferimento ad un’ANSA, da noi riscontrata soltanto in un’ANSA-Brasil del 5 aprile 2017. L’unica! Da noi “salvata” a riprova di quanto appena ricordato.
Che strano! o un piccione viaggiatore fece prima a depositarla presso la sede della redazione dell’Agenzia Stampa lontanissima da quella a un tiro di schioppo dal “teatro” della vicenda, o nei dintorni del Vaticano si aggirava in quelle ore, per caso (???), il corrispondente brasiliano della più importante agenzia di informazione italiana…

Uno dei tanti misteri vaticani! non certo misteri della fede… In tutti i casi, col buon vento in poppa dell’immancabile eco mediatica.

Maria Michela Petti
O8 marzo 2023