Nel caldo raggio della carità

11 Novembre 2022 0 Di EH(?)
Foto: dal web

“ero…nudo e mi avete vestito… In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me”. (Mt 25 – 36,40)

Lo fece Martino, il “soldato romano non battezzato”. Il cavaliere che, uscito per una ronda notturna in pieno inverno, s’imbatté in un poveruomo intirizzito dal freddo e, in uno slancio di generosità, diede un taglio con la spada al suo mantello e gliene donò la metà perché potesse almeno ricoprirsi. E: in quel momento spuntò quel raggio di sole, cui si richiama “l’estate di San Martino”, che ha ispirato anche una fra le più note poesie del Carducci.
Con addosso quella stessa parte della sopravveste militare, la notte successiva, gli apparve in sogno Gesù. A riprova di quel monito, parte integrante della pagina evangelica sulla preparazione al giorno e sul metro del giudizio finale. Non solo: al risveglio, Martino ritrovò integro il suo mantello.

Si deve a questo gesto magnanimo, il più conosciuto della sua vita, la celebrazione molto diffusa – non solo fra i cattolici – della memoria di San Martino, che ricevette il battesimo a ventitré anni, in occasione della Pasqua del 339, dopo quella singolare esperienza, e che si festeggia l’11 novembre.

Tale ricorrenza per l’intreccio con usanze tradizionali, particolarmente coltivate nei Paesi di lingua tedesca (Trentino-Alto Adige compreso), che ho avuto modo di conoscere in prossimità grazie a legami e scelte familiari, mi riporta con la mente all’appuntamento annuale con la Festa di San Martino, contemplata nel programma scolastico della Scuola germanica, frequentata al tempo dai figli.
Per un pomeriggio intero le aule si trasformavano in luogo di incontro e di intrattenimento amichevole, con il coinvolgimento attivo dei genitori nella realizzazione di progetti accuratamente ideati. Il tutto al fine di rinsaldare il valore della con-divisione e trasmetterne il messaggio concreto attraverso l’opera delle menti e delle mani, con la derivante raccolta fondi destinati, per la gran parte, a realtà operative nel sociale ben conosciute e presenti in varie parti del mondo. Un contributo rilevante veniva dal consumo e dalla vendita di piatti della cucina tedesca e italiana, preparati ed offerti da nonne e mamme degli allievi, oltre che dalle insegnanti, dietro accurata concertazione, che rendevano ancor più partecipato e sfizioso il momento conviviale.
Intanto che scorrevano veloci le ore ci si avvicinava al clou della festa, atteso nell’entusiasmo contagioso soprattutto degli alunni più piccoli: la sfilata delle lanterne, nel buio della sera, al seguito di un figurante San Martino a cavallo, attraverso gli ampi spazi aperti dell’Istituto scolastico.

Quanta nostalgia di anni passati e non solo! ricordando momenti vissuti lontano anni luce dalla quotidianità, tutt’altro che piacevole, del contesto abitativo… In cui ognuno è sembrato vivere – e, per quel che non posso fare a meno di notare, al di là delle apparenze… sembra tuttora vivere – come un naufrago approdato su un’isola deserta.
Dove ognuno è realmente “solo sul cuor della terra”. Tanto per non dimenticare Quasimodo che, invece, non soffrì la solitudine almeno nei giorni immediatamente precedenti l’ultima ora della sua vita, sopraggiunta il 14 giugno del 1968 nel trasferimento verso un ospedale, perché colpito da un malore improvviso, durante un soggiorno ad Amalfi, il mio luogo del cuore, essendovi nata. Nel posto dove il poeta aveva trovato “il giardino che cerchiamo sempre e inutilmente dopo i luoghi perfetti dell’infanzia”, come ha lasciato scritto nel suo “Elogio” a quella che fu la prima, gloriosa, Repubblica marinara.

E: non può esserci giardino senza i raggi del sole. Quelli che mancano in un deserto di umanità. Rendendo molto, ma molto, più pungente del freddo di una notte invernale, il gelo causato dall’isolamento e dall’indifferenza degli umani poveri di umanità, che orbitano per pura casualità intorno ad un qualche marziano capitato, per uno strano gioco del destino, in un mondo che non è proprio quello paradisiaco accreditato con leggende metropolitane nell’immaginario collettivo. Arrivando a spegnere persino la luce della stella solare intorno alla quale ruota il nostro pianeta: la Terra e osteggiando la speranza di uscita da un interminabile tunnel, per quanti sforzi si mettano in atto con determinazione e coraggio.

Per sgomberare il campo da ogni plausibile dubbio, mi corre l’obbligo di precisare che questo sfogo amaro – qui reso pubblico, per cause di forza maggiore – non è che la conferma, con prove provate, delle mie confidenze, anche a proposito di tentativi coraggiosi, e purtroppo inutili, da me messi in atto, per allontanarci da quest’ambiente, in particolare perché non rispettoso delle esigenze primarie dei figli, in ogni fase della loro crescita. Confidenze risalenti a tempi non sospetti e affidate, nel corso di decenni andati, a non pochi conoscenti, molti dei quali ancor adesso viventi. Che, sono certa, si ridurrebbero alla solita sparuta minoranza, di sperimentata vicinanza in questi ultimi anni, disposta – ove mai servisse a qualcosa – ad attestarne la veridicità, senza timori di sorta, benché comprensibili per giustificati motivi, e senza soggiacere a calcoli opportunistici, cosa altrettanto verificata in varie circostanze legate agli sviluppi della squallida storia ormai ben nota, in cui siamo stati catapultati.

In questo oscuro scenario rimbomba l’eco di parole inflazionate con le quali si infiocchettano insegnamenti morali, come racconti della buona notte a bambini e dagli effetti illusionistici, pure sul tema dominante della carità ai bisognosi. Eludendo, o comunque non affrontando con coerenza e cura doverosa, le “povertà” invisibili – anzi: fingendo di non vedere quelle originate in loco! – dovute a carenza di empatia e, quel che è peggio, alla miseria umana alla base di tante ingiustizie, perpetrate più o meno consapevolmente, in qualche caso addirittura con deprecabile premeditazione. Ingiustizie che, senza se e senza ma, spogliano le vittime della propria dignità, pur evocata a parole in pronunciamenti da ogni pulpito e attraverso messaggi diffusi a getto continuo attraverso i mass e social media.

È la parola, oggi più che mai, l’arma sfoderata per tagliare l’abito proprio di una persona che, il più delle volte, cade inerme sotto i colpi della menzogna e della maldicenza, condannato a soccombere, in circostanze e per un qualche oscuro disegno, alla gelata della gogna mediatica. E: non c’è modo e maniera di far aprire, al di là delle lezioncine impartite, la porta chiusa in faccia alla speranza contro ogni speranza nel “miracolo” di vedersi restituire ricomposto l’abito stracciato.

«Solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta. La verità è luce che dà senso e valore alla carità… Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità. Esso è preda delle emozioni e delle opinioni contingenti dei soggetti, una parola abusata e distorta, fino a significare il contrario. La verità libera la carità dalle strettoie di un emotivismo che la priva di contenuti relazionali e sociali, e di un fideismo che la priva di respiro umano ed universale». (Benedetto XVI, “CARITAS IN VERITATE” [29 giugno 2009], 3)
«Caritas in veritate» precisa Papa Ratzinger «è principio intorno a cui ruota la dottrina sociale della Chiesa, un principio che prende forma operativa in criteri orientativi dell’azione morale», richiamando innanzitutto l’attenzione sulla “giustizia”. «La carità… non è mai senza la giustizia, la quale induce a dare all’altro ciò che è “suo”, ciò che gli spetta in ragione del suo essere e del suo operare. Non posso «donare» all’altro del mio, senza avergli dato in primo luogo ciò che gli compete secondo giustizia. Chi ama con carità gli altri è anzitutto giusto verso di loro. Non solo la giustizia non è estranea alla carità… è la prima via della carità o, com’ebbe a dire Paolo VI, «la misura minima» di essa, parte integrante di quell’amore «coi fatti e nella verità» (1 Gv 3,18), a cui esorta l’apostolo Giovanni» (6).
L’Enciclica si conclude con l’esortazione all’amore fraterno raccomandato da San Paolo nella Lettera ai Romani (12,9-10) dall’incipit stringente: “La carità non sia ipocrita”.
Ammonimento ribadito in termini eloquenti, sempre da San Paolo, nel celebre Inno (1Cor 13:4-10) in lode di questa virtù teologale “di tutte più grande”, sul quale mi soffermo spesso col pensiero e che mi rappacifica con me stessa, per le sottolineature seguenti e, più di tutto, per il finale: «la carità… non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità».

La ricorrenza odierna mi suggerisce, inoltre, il collegamento ad un altro elemento di attualità nel tempo che ci troviamo a vivere, inerente al ministero episcopale.

San Martino fu voluto vescovo per il consenso generale dei fedeli di Tours, nonostante la sua ritrosia che lo aveva spinto a nascondersi in una stalla per oche, che con il loro starnazzare richiamarono l’attenzione sulla presenza insolita in quel posto.

Negli ultimi tempi, invece, ad una lettura attenta delle cronache quotidiane non può sfuggire che sono sempre più numerose le notizie riguardanti “rinunce” di vescovi, delle varie diocesi del mondo (scrupolosamente elencate da un sito web spagnolo), presentate ed accettate, per motivi che restano sconosciuti, ben prima o non molti mesi prima del compimento dei 75 anni, fissato per il pensionamento dei prelati.
Di recente, due elementi di questo fatto nuovo mi hanno lasciato alquanto disorientata.
Nel racconto giornalistico di un “caso” del genere, si è arrivati a definire “mestiere usurante” l’adempimento del mandato episcopale, con ampio riferimento alla sindrome “burnout”… Bah!
Profondo turbamento ho provato nell’ascoltare, dal video della conferenza-stampa, la dichiarazione “a cuore aperto”, e con voce che tradiva una certa sofferenza, di mons. Valerio Lazzeri, dimessosi il 10 ottobre scorso dal governo della diocesi di Lugano e ora emerito a 59 anni.
Ai sinceri ringraziamenti rivolti ai collaboratori per il prezioso supporto al suo servizio pastorale, sono seguite parole che mi sono suonate come denuncia di fattori di disturbo alla serena conduzione del medesimo e alle attitudini personali. «…aspetti pubblici di rappresentanza, di governo istituzionale e di gestione finanziaria e amministrativa, che sono sempre stati lontani da tutto ciò che le inclinazioni naturali e il ministero mi avevano portato a coltivare in precedenza, sono diventati per me insostenibili». E: quelle condizioni, pur riconosciute necessarie nello svolgimento dell’autorità chiamata ad esercitare, che tuttavia – ha proseguito mons. Lazzeri – hanno «messo a dura prova la maniera per me più spontanea e connaturale di entrare in relazione con le persone», portandolo «interiormente sempre più lontano da quello che sono e, in parte, anche da quello che continuo a ritenere essere il mio vero compito di pastore e di padre… non riesco più ad immaginarmi – ha concluso, motivando la decisione di dimettersi – nella posizione che finora ho cercato sinceramente e con tutto il cuore di fare mia; non riesco più a vedere un modo di interpretare e di vivere la missione di vescovo a Lugano autentico e sostenibile per me e, di conseguenza, veramente proficuo per tutti».

Parole come un macigno, a me sembra, sulla complessità di problemi oggettivamente gravi che turbano la vita della Chiesa di oggi, portati alla luce dagli organi di stampa, sia pure in misura contenuta, in parte senz’altro mistificate e strumentalizzate, alcuni dei quali inseriti per sommi capi nell’informazione circa le dimissioni di mons. Lazzeri, che con ogni probabilità avranno influito su questa sua scelta e sui quali mi astengo da ogni commento, per totale incompetenza.
Preferisco evidenziare il suo inequivocabile rilievo alle difficoltà, per lui insormontabili, nel rapporto interpersonale che avrebbe voluto improntare al moto d’animo proprio, senza tradire il “vero compito di pastore e di padre”, che aveva assunto con la consacrazione episcopale all’inizio del 2013.

“Compito di pastore e di padre” che, invece, portò avanti per 26 anni il vescovo di Tours, San Martino, di cui oggi si fa memoria, nello stile della prossimità evangelica testimoniata circa quarant’anni prima della sua morte (317), nella notte dell’incontro con il pover’uomo infreddolito, con il quale divise il suo mantello.
Gesto che lo avvicinò alla visione e alla conoscenza della Verità. Del” l’amor che move il sole e l’altre stelle”, che in Dante – proprio a seguito della fugace visione – “già volgeva il mio disio e ‘l velle, / sì come rota ch’igualmente è mossa”. (Paradiso XXXIII, 143-145) L’unica forza motrice del movimento interiore che, solo, può scatenare quella rivoluzione d’amore in grado di rigenerare le sorti della società contemporanea, tormentata da conflitti e disordini generalizzati da un capo all’altro del mondo.

Maria Michela Petti
11 novembre 2022